La Guardia di Finanza mette in guardia sui rischi collegati alle criptovalute

Il tema delle criptovalute è ancora oggetto di notevoli controversie. Se da una parte ci sono coloro i quali ritengono gli asset digitali una possibile risposta in termini di democratizzazione alla concentrazione di ricchezza finanziaria e ne decantano l’utilità per le transazioni online, dall’altra parte continua ad essere nutrito il gruppo di detrattori delle divise virtuali. Un gruppo in cui spiccano molti nomi della finanza tradizionale, come ad esempio Warren Buffett o, per restare in Italia, Davide Serra, il fondatore di Algebris, il più duro in assoluto contro Bitcoin e altre cryptocurrency, indicate alla stregua di una vera e propria lavanderia per capitali sporchi.
Proprio per questo ha destato un certo interesse lo studio recentemente emesso dalla Guardia di Finanza teso in particolare a mettere in guardia sui possibili rischi collegati al diffondersi delle monete virtuali.

Lo studio della Guardia di Finanza presentato a Verona

Secondo la Guardia di Finanza sarebbero quattro i tipi di rischi che caratterizzerebbero le criptovalute: finanziari, monetari, criminali e di contrasto. Ad affermarlo è lo studio presentato a Verona, presso il Palazzo della Gran Guardia, che ha fatto anche da base per una comunicazione emessa dall’UIF, Unità di Informazione Finanziaria per il nostro Paese della Banca d’Italia e ha trovato l’autorevole avallo delle autorità giudiziarie.
Il punto di partenza del report è la constatazione che la tecnologia è neutra, ma il suo utilizzo no. Se quindi da un lato essa può fare da base per dare vita a occasioni di sviluppo e investimento, dall’altra deve però essere oggetto di controllo in modo da garantire gli investitori. In particolare dal rischio criminale che può fare leva sull’utilizzo degli asset digitali al fine di finanziare non solo i tentativi di frode verso gli utenti, ma anche la formazione di un mercato nero e le attività di riciclaggio e terrorismo. Senza contare l’elevata possibilità di bolle speculative che potrebbero riflettersi sul sistema bancario e su quello economico globale.
Pericoli che la stessa GdF afferma di non poter combattere se non in un quadro di massima collaborazione, in particolare dando vita ad organismi sovranazionali specializzati nell’opera di contrasto a fenomeni di questo genere.
Il seminario di studi che è culminato nella presentazione del rapporto, ha visto anche la partecipazione di Massimiliano Sala, ordinario di matematica a Trento e direttore dell’associazione De Componendis Cifris, una sorta di pensatoio che riunisce circa 700 iscritti tra docenti, ricercatori ed esperti pubblici e privati. Proprio lui ha voluto ricordare come le monete virtuali potrebbero rappresentare un sistema in grado di garantire l’accesso ai finanziamenti da parte di chi si vede precluse le altre strade possibili. Le alternative in tal senso, però possono portare a risultati molto diversi: se una criptovaluta creata in proprio e le transazioni affidate a un server comportano il rischio di amministratori disonesti, utenti pronti ad approfittare di errori di autenticazione di attacchi informatici tesi a svuotarlo, affidarsi a una blockchain potrebbe invece dare adeguate garanzie a chi vuole privacy sull’identità digitale e relative all’impossibilità di alterare i contenuti.

Il ruolo della magistratura

I timori messi in evidenza dalla Guardia di Finanza sono poi stati condivisi dalla magistratura, per bocca di Antonella Magaraggia, presidente del tribunale di Verona, secondo la quale proprio l’anonimato che caratterizza le transazioni che vedono protagoniste le monete virtuali amplificherebbe i pericoli che esse possano essere utilizzate per finalità illecite. Altro punto dolente messo in rilievo dal suo intervento è poi quello relativo al fatto che gli asset digitali, rispetto alle valute ordinarie, sarebbero meno suscettibili di confische da parte delle forze dell’ordine e quindi pià difficili da sottomettere alla normale attività di contrasto a pratiche illegali.
Al suo intervento si è poi aggiunto quello di Eugenio Fusco, procuratore aggiunto a Milano, il quale ha messo in rilievo la costante e intensa crescita degli illeciti informatici in Italia, con una lievitazione del 318% nel corso del 2018 rispetto ai dati registrati un anno prima. Una tendenza favorita del resto dal fatto che le aziende italiane continuino a sottovalutare il tema della sicurezza digitale, investendo appena l’1,5% in cybersecurity.